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Miti

Nascita di Ceculo

A Preneste, non lontano da Roma, vi erano due fratelli chiamati divi. Un giorno la loro sorella, mentre sedeva presso il focolare, fu resa gravida da una scintilla e diede alla luce un bambino, che poco dopo abbandonò vicino al tempio di Giove. In seguito, alcune fanciulle che andavano a raccogliere l’acqua lo trovarono accanto al fuoco; per questo il bambino fu considerato figlio di Vulcano. Inoltre, venne chiamato Ceculo (Piccolo cieco) perché a causa del fumo i suoi occhi erano più piccoli del normale1.

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Morte di Tullo Ostilio

Sotto il regno di Tullo Ostilio, a Roma, scoppia una grave pestilenza, che finisce per colpire lo stesso sovrano. Così proprio lui, che aveva sempre ritenuto indegne di un re le pratiche religiose, d’un tratto divenne schiavo di ogni genere di superstizione. Tutti sapevano che per ottenere la salvezza di quei corpi malati era opportuno invocare l’aiuto degli dèi seguendo le prescrizioni di Numa. E così il re in persona si mise a consultare i libri di Numa, alla ricerca disperata di un rimedio sicuro al suo male. Dopo attenta lettura, trovò in quei libri la descrizione dei sacrifici in onore di Giove Elicio e si ritirò in solitudine nella reggia sul Celio, per compiere quel rito da solo, di nascosto da tutti. Ma stava sbagliando ogni cosa: non solo celebrava per se stesso riti pattuiti da Giove e Numa per il bene collettivo, ma non rispettava neppure il Coretto svolgimento della pratica rituale. E allora Giove, irato per tanta tracotanza ed esasperato dall’irregolarità del rito, fulminò il re e lo incenerì insieme alla sua casa1.

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Morte collettiva dei Fabi

La guerra contro Veio si trascinava ormai da tre anni, finché non impugnarono le armi le mani di una sola famiglia pronta a sacrificarsi per il bene di Roma. Tutto ebbe inizio quando nell’aula del senato Cesone Fabio avanzò una singolare richiesta: «Delle altre guerre – diceva – fatevi carico voi, questa la vogliamo condurre noi, come una questione di famiglia, a nostre spese»1. La richiesta fu accolta e i circa trecento Fabi, fra i plausi del popolo intero, partirono, minacciando la rovina del popolo veiente con le forze di una sola famiglia2. La battaglia ebbe luogo presso il fiume Cremera, dove il loro valore brillò, ma fu superato con l’inganno: che potevano fare pochi valorosi di fronte a un agguato di tante migliaia di nemici? Come un solo giorno aveva visto partire tutti i Fabi, così un solo giorno li vide perire. Eppure, gli stessi dèi avevano provveduto affinché la stirpe non si estinguesse: sopravviveva un bambino, rimasto in città perché un giorno potesse nascere Massimo il Temporeggiatore3.

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Orazi e Curiazi

Tullo Ostilio e il re di Alba Longa, Mezio Fufezio, decidono di risolvere il conflitto fra le loro città facendo scontrare un numero circoscritto di uomini. Come per un segno del fato, a Roma e ad Alba sono presenti due coppie di trigemini e Fufezio propone di scegliere tali giovani quali campioni dei rispettivi eserciti. I gemelli sono fra loro cugini, in quanto figli di due sorelle, le Sicinie, a loro volta gemelle fra loro e sposate dal loro padre l’una al romano Orazio, l’altra all’albano Curiazio. Inoltre, i sei ragazzi sono cresciuti a stretto contatto, al punto da chiamarsi tra loro “fratelli”, e la sorella degli Orazi è promessa sposa a un Curiazio. Nonostante ciò, i campioni delle due città sono disponibili ad affrontare il duello. Il combattimento ha luogo alla presenza dei rispettivi eserciti; dopo che due degli Orazi sono già caduti, il fratello superstite riesce a uccidere tutti i nemici, affrontandoli uno alla volta, e torna a Roma carico delle spoglie sottratte ai Curiazi. In mezzo alla folla che gli corre incontro c’è anche la sorella, che riconosce fra le spoglie il mantello da lei tessuto per il promesso sposo; Orazia scoppia allora in lacrime, rimproverando al fratello di aver ucciso degli stretti congiunti, ai quali si rivolgeva con l’appellativo di “fratelli”. Per tutta risposta, Orazio trafigge con la spada la ragazza, colpevole di piangere un nemico e di avergli rifiutato il "bacio" rituale che deve a suo fratello. Ha luogo allora un processo, nel corso del quale il giovane Orazio si appella al popolo e viene assolto, nonostante la gravità del suo crimine, in nome dell’eroismo mostrato in guerra. Tuttavia, per placare l’ira degli dèi, custodi dei legami parentali, vengono consacrati due altari, uno dedicato a Giunone Sororia, protettrice delle sorelle, e uno a Giano Curiazio. Il giovane Orazio, poi, viene fatto passare in segno di espiazione sotto un giogo, il Tigillum sororium o “Trave della sorella”, ancora visibile nel tardo I secolo a.C.; nella stessa area sorgeva anche la colonna eretta per conservare le spoglie dei Curiazi, la cosiddetta pila Horatia12.

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Tarpea

Lo sdegno dovuto al ratto delle loro donne induce gli abitanti di tre città della Sabina (Cenina, Crustumerio e Antemne) a imbracciare le armi contro Roma. Dopo che le loro spedizioni si rivelano fallimentari, un più vasto conflitto è scatenato da Tito Tazio, re della città di Curi e figura egemone presso tutti i Sabini. A differenza dei suoi predecessori, Tazio ricorre a un piano lucido, spinto fino all’inganno. La guerra ha inizio con un curioso colpo di mano: Tarpea, la giovane figlia del custode del Campidoglio, Spurio Tarpeo, si reca a prendere dell’acqua per una cerimonia sacra e in questa occasione si lascia corrompere dall’oro del nemico. La donna consente ai Sabini di impossessarsi della rocca, ma una volta ottenuto l’ambito accesso, questi la uccidono brutalmente, lanciandole addosso i loro pesanti scudi fino a soffocarla: prima di spalancare proditoriamente le porte della rocca, Tarpea aveva infatti chiesto come contraccambio ciò che i Sabini portavano al braccio sinistro. La giovane avrebbe inteso riferirsi in questo modo ai bracciali d’oro e agli anelli preziosi che i Sabini usavano indossare; ma poiché anche gli scudi venivano tradizionalmente sostenuti col braccio sinistro, la richiesta di Tarpea poté agevolmente prestarsi a un macabro e deliberato malinteso. Non mancano peraltro versioni del racconto secondo cui, lungi dall’essere una traditrice, Tarpea avrebbe tentato di far cadere in trappola i nemici in forza del suo ambiguo riferimento alla mano sinistra: ella avrebbe realmente mirato alla consegna degli scudi dopo l’ingresso in Campidoglio, fidando nell’imminente arrivo delle truppe romane sui Sabini disarmati, ma Tazio e i suoi avrebbero colto l’intenzione fraudolenta e optato per un sanguinario “contro-dono”12.

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Integrazione tra Romani e Sabini

Una volta conquistato il Campidoglio, i Sabini devono far fronte al rinnovato impeto delle truppe romane, ansiose di vendetta. Dalla mischia emergono due valorose figure: Mezio Curzio per i Sabini e Osto Ostilio per i Romani. Quest’ultimo però cade sul campo, gettando i compagni nello sconforto; Romolo supplica allora Giove di arrestare la fuga e salvare la città, promettendo in cambio la costruzione di un tempio al dio come “Statore”. I Romani riprendono a combattere e riescono a disarcionare dal cavallo Mezio Curzio; questi precipita quindi in una palude, nell’area che più tardi sarebbe stata occupata dal Foro. A ricordo dell’evento, tale parte del Foro sarà denominata Lacus Curtius. Sostenuto dalle acclamazioni dei Sabini, comunque, Mezio si tira fuori dall’acquitrino e la battaglia riprende nella valle fra Campidoglio e Palatino. Sono le donne sabine che a questo punto imprimono una svolta alle vicende, gettandosi in mezzo alle schiere e supplicando entrambe le parti di porre termine a quella che è divenuta ormai una guerra civile. Gli uomini in lotta, commossi dall’accorato appello, acconsentono alla pace e decidono di fondere le due città. I Sabini si trasferiscono a Roma, dove Tazio diviene re al pari di Romolo. La diarchia così inaugurata prosegue all’insegna della piena concordia, finché un sinistro incidente non spezza la vita del coreggente sabino. Alcuni parenti di Tazio usano violenza contro gli ambasciatori dei Laurentini, e allorché questi domandano giustizia, Tazio non ha la forza di opporsi alle suppliche dei suoi. Perciò, quando il re sabino si reca a Lavinio allo scopo di celebrare un sacrificio, i Laurentini si vendicano uccidendolo12.

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Morte di Tito Tazio: empietà e contaminazione

È infatti a Lavinio che si consuma un altro gesto di empietà e violenza, teso a pareggiare il debito di sangue: Tazio è assassinato mentre officia un sacrificio, in un momento in cui la prassi religiosa esige il massimo della purezza e dello scrupolo. Accade invece che il re sabino muoia «trafitto presso gli altari dai coltelli sacrificali e dagli spiedi utilizzati per trapassare i buoi»1. Il sangue degli animali consacrati, offerto per la città e per gli dèi, è orribilmente mescolato a quello del celebrante, al culmine di una faida fra popoli consanguinei. Al delitto fanno seguito una serie di eventi infausti: un’inattesa pestilenza si abbatte sugli abitanti di Roma e Lavinio, la terra e gli animali domestici divengono sterili e una pioggia di sangue si rovescia sui luoghi. Né i Romani né i Laurentini hanno dubbi sul fatto che l’ira divina sia stata provocata dai due atti di empietà rimasti inespiati: l’omicidio degli ambasciatori e il linciaggio di Tazio. Dopo la morte di quest’ultimo, infatti, Romolo si era rifiutato di punire i colpevoli, asserendo che il primo fatto di sangue era stato cancellato dal secondo. Nessun effetto sortisce comunque la sollecitudine religiosa con cui Romolo dà sepoltura al collega sull’Aventino, istituendo presso la sua tomba un culto funebre che prevede l’offerta annuale di libagioni a spese della comunità, identiche a quelle che si versavano sul Campidoglio per l’ambigua eroina Tarpea. Il re deve dunque rassegnarsi a fare piena giustizia: vengono puniti sia gli aggressori degli ambasciatori laurentini sia gli assassini di Tazio e le due città sono purificate attraverso apposite cerimonie lustrali. Anche questi riti entrarono nell’uso tradizionale ed ebbero come sfondo, nei secoli successivi, una non meglio precisata Porta Ferentina2.

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Suppliche a Coriolano

Dopo aver lasciato Roma per un esilio volontario, in rotta con i propri concittadini, Caio Marcio Coriolano è stato accolto dai Volsci, che ne hanno fatto il proprio generale e alla cui testa egli giunge sino al punto di porre l’assedio alla propria città. Le matrone si recarono allora da Veturia e Volumnia, madre e moglie di Coriolano, per chiedere loro un intervento presso l’eroe divenuto capo dei nemici. Esse si recano al campo dei Volsci, nella speranza di ottenere con le preghiere e le lacrime ciò che gli uomini non avevano ottenuto con le armi. Attraverso un discorso efficace, che fa appello in primo luogo al suo ruolo di madre non solo di un figlio, ma anche di un cittadino, Veturia riesce nell’intento e Coriolano rimuove l’assedio dall’Urbe1.

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Androcle amico del leone

Androcle, schiavo del proconsole romano in Africa, fugge dal padrone e si rifugia in una caverna. La trova già occupata da un leone, che giace ferito e dolorante. L’uomo, dapprima terrorizzato, comprende che l’animale gli sta chiedendo aiuto ed estrae dalla sua zampa la spina che lo tormenta, lo medica, e ottiene così la sua fiducia. Il leone lo aiuta a restare nascosto: condivide con lui le sue prede di caccia e così vivono insieme per tre anni. Stanco di quella vita ferina, Androcle decide un giorno di andarsene: ma, ben presto catturato, venne portato a Roma per essere giustiziato. In quanto schiavo fuggitivo viene condannato ad bestias. Immesso nel circo e terrorizzato dalle belve che ormai lo circondano per sbranarlo, si accorge che uno dei leoni si avvicina scodinzolando come un cane festante: giunto al suo cospetto, l’animale congiunge il suo corpo a quello dell’uomo e lo lecca blandamente. Androcle riconosce allora il leone che aveva salvato e racconta la sua storia all’imperatore stupefatto. Secondo la versione di Eliano (più ricca di dettagli), dopo il ricongiungimento di Androcle e del leone, l’impresario dello spettacolo – sospettando una magia – aveva fatto liberare un leopardo, che aveva attaccato l’uomo: ma il leone si era frapposto per difenderlo e aveva ucciso l’altra belva. Il pubblico, estasiato, decreta che siano rilasciati entrambi, schiavo e leone. Da quel momento, Androcle viene visto girare per la città con il suo compagno felino a guinzaglio, accolto con gioia nei vicoli e nelle taverne, dove la gente li saluta con omaggi di denaro e floreali esclamando: «Ecco il leone ospite dell’uomo, e l’uomo medico del leone!».

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Tarpea si fa corrompere dai nemici

Al tempo in cui il Campidoglio era sorvegliato da Spurio Tarpeio, i Sabini guidati da Tito Tazio entrarono a Roma. Fu la figlia del guardiano, Tarpea, a rendere possibile l’accesso ai nemici. La giovane vergine era uscita dalle mura per prendere l’acqua quando fu sorpresa da Tito Tazio. Tarpea guidò il nemico alla rocca, secondo alcune fonti con la promessa di ricevere in cambio i suoi gioielli d’oro1, secondo altre perché innamoratasi subitaneamente del re sabino2. In tutti i casi, la fanciulla morì, colpita dagli scudi dei nemici.

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Enea e Giove sul Campidoglio

Enea fa visita a Evandro, il re Arcade che ha edificato la città di Pallantium sul luogo in cui un giorno sorgerà Roma. L’ospite mostra all’eroe troiano alcuni luoghi destinati ad assumere grande rilevanza nella futura topografia della Città: il bosco che ospiterà l’asylum, la grotta del Lupercale, l’Argileto, e così via. Quando i due giungono di fronte a Campidoglio, che all’epoca è ancora e soltanto un colle coperto di selve, viene spiegato che quel luogo è avvolto da una dira religio (un inquietante timore religioso) e che i contadini ne sono spaventati: sul colle abita un dio, dice Evandro, non si sa chi sia, ma gli Arcadi credono di aver visto lassù Giove (Iuppiter) mentre agita la nera egida e scuote le nubi con la destra1.

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Sconsacrazione e consacrazione dei confini di Roma

Prima della costruzione, Tarquinio ritenne opportuno liberare l’area dai precedenti vincoli religiosi, facendo sconsacrare (exaugurare) gli edifici che vi erano stati votati dal re Tazio durante il conflitto con Romolo, e che in seguito erano stati consacrati solennemente (consecrata inaugurataque). In quella occasione gli dèi vollero manifestare esplicitamente il loro volere. Gli auspici forniti dagli uccelli, infatti, approvarono la sconsacrazione riguardo a tutti gli altri templi, tranne che per il sacello di Terminus, il dio dei confini. In questo modo essi significarono la futura stabilità dei fines di Roma. A questo auspicio di eternità dell’impero ne seguì un altro relativo alla sua grandezza, allorché, scavando le fondamenta del tempio, fu trovato un teschio umano dai lineamenti integri. Questo caput significava che il luogo era destinato a costituire la rocca dell’impero e la “testa” della sua potenza1

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La madre degli dei arriva a Roma

In una delle fasi più drammatiche della seconda guerra punica, infatti, fu richiesto il suo trasferimento a Roma, dove la dea sarebbe stata onorata col nome di Mater magna. In quell’occasione furono consultati gli Oracoli Sibillini, che così recitarono: «La madre manca, o Romani, la madre v’ordino di cercare. Quando verrà con casta mano sia accolta». L’oracolo di Delfi, consultato a sua volta per sciogliere l’ambiguità dell’oracolo, indicò che la “madre” di cui andare in cerca era la Madre degli dèi. Inizialmente Attalo I, il re di Pergamo, si oppose alla richiesta, ma la dea stessa parlò dai penetrali del proprio tempio, invitandolo a lasciarla andare nella città «degna di accogliere qualsiasi divinità». Il nero simulacro della Mater magna venne dunque imbarcato su una nave, costruita per l’occasione, e navigò tranquillo fino alle foci del Tevere, dove trovò ad attenderla cavalieri, senatori e plebe di Roma. A questo punto però la nave si incagliò, e a dispetto di ogni sforzo, non ci fu più modo di farla proseguire. Turbati dal prodigio gli uomini, spossati, abbandonano le funi con cui avevano invano tentato di disincagliare l’imbarcazione. Vi era tra i presenti Claudia Quinta, nobile discendente del vecchio Clauso, donna elegante e onesta, ma sulla cui castità correvano voci maligne. Staccatasi dal gruppo delle matrone, Claudia prima compie un gesto di purificazione, bagnandosi con l’acqua del fiume, dopo di che, inginocchiata e con i capelli sciolti, prega la dea di comprovare davanti a tutti la propria castità. Pronunziate queste parole Claudia tirò senza sforzo la corda e il viaggio della Mater riprese felicemente fino alla destinazione finale1.

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cerimonia_assedio

«Che sia dio o sia dea, tu che hai in tutela popolo e città di Cartagine, e tu soprattutto, tu che hai ricevuto la tutela di questa città e di questo popolo, supplico e prego e grazia a voi domando che il popolo e la città di Cartagine abbandoniate, che i loro luoghi templi riti e città lasciate, che da essi vi allontaniate, che a tale popolo e città paura timore oblio incutiate, che disertandoli a Roma da me dai miei veniate, che i nostri luoghi templi riti città più graditi e cari vi siano, che a me e al popolo romano e ai miei soldati guida siate affinché sappiamo e comprendiamo. Se così farete, faccio voto di dedicarvi templi e ludi»1

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camillo_giunone

Dopo aver preso gli auspici e aver ordinato ai soldati di armarsi, il dittatore Camillo disse: «mi accingo a distruggere Veio per tuo impulso, Apollo Pizio, e a te prometto solennemente (voveo) la decima parte del bottino. E prego te, Giunone Regina, che ora hai in tutela Veio, di seguirci vincitori nella città che accoglierà anche te, in un tempio degno della tua grandezza». I Veienti ignorano che gli dèi li hanno abbandonati e che già aspirano a nuovi templi nella città vincitrice: combattono valorosamente, ma alla fine, in un ulteriore intreccio di prodigi sfavorevoli, la città cade in mano romana. I vincitori si accingono a portar via le prede di cui si sono impadroniti, e giunge il momento di trasportare a Roma anche la statua di Giunone Regina: ma «più alla maniera di chi venera, che non di chi rapisce». Un gruppo di giovani, dopo essersi purificati e con indosso una veste candida, pieni di religioso rispetto si accingono a metter mano al simulacro della dea, che secondo il costume etrusco nessuno aveva il diritto di toccare se non il sacerdote di una certa gens. Uno di essi, non si sa per divina ispirazione o per gioco, chiese: «vuoi venire a Roma, Giunone?». Tutti i presenti esclamarono che a queste parole la dea aveva annuito (adnuisse), altri dissero addirittura che aveva parlato, esprimendo a voce il proprio assenso. Dopo di ciò la statua fu portata via senza bisogno di macchinari particolari, «facile e lieve», per essere condotta sull’Aventino dove il voto di Camillo l’aveva destinata: e dove egli stesso consacrò il tempio a lei dedicato1.

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uccisione_romolo

Della morte di Romolo esistono due versioni. Quella meno diffusa1mette in risalto l’aspetto tirannico del fondatore di Roma. Si racconta infatti che Romolo aveva accentrato nelle sue mani sempre più potere e questo lo aveva reso inviso agli altri patres, cioè agli altri senatori romani con i quali si consultava durante il suo regno. Questi, volendo mettere fine al suo potere spropositato, lo avevano ucciso durante un’assemblea e, per nascondere il delitto, avevano spezzato il suo corpo, di cui ogni senatore aveva portato via un pezzo nascosto sotto la sua toga.

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deificazione_romolo

Si dice che, durante una violenta tempesta, una nuvola avesse avvolto il corpo di Romolo e lo avesse nascosto alla vista dei patres. Dissoltasi la nuvola, Romolo non si trovò più da nessuna parte. I Romani allora, dice Livio1, furono presi dalla paura e dallo sconforto, come se avessero perso un padre. Poi qualcuno cominciò a esclamare che Romolo, figlio di un dio, era diventato un dio lui stesso. I patres diffusero la buona notizia, ma la città rimase piuttosto inquieta per la strana scomparsa. Non tutti ci credevano. Ci fu allora un certo Giulio Proculo, il cui parere era stimato, che si presentò al popolo e affermò di essere certo che Romolo fosse salito al cielo. Come prova addusse il fatto che il loro sovrano era apparso quella mattina stessa davanti ai suoi occhi impauriti e pieni di rispetto. Romolo gli aveva ingiunto di riferire agli altri Romani che non si preoccupassero per lui e aveva aggiunto un messaggio per i suoi concittadini: la volontà del cielo era che Roma fosse la capitale del mondo. I Romani dunque si sarebbero dovuti impegnare nell’arte militare e avrebbero dovuto insegnare ai loro figli che nessuna potenza umana può resistere alle armi dei Romani. Dopodiché, dice Proculo, Romolo si alzò in aria e sparì.

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ino_roma

La storia inizia nella città greca di Tebe, dove si trova la giovane donna Ino, sposa del re Adamante. Inoè anche sorella di Semele, dalla cui relazione amorosa con Zeus nasce Dioniso. A causa dell’ira di Giunone, però, Semele è stata fulminata. Dalle ceneri del suo corpo viene estratto il feto di Dioniso, che viene cucito nella coscia di Zeus per completarne la gestazione. Una volta nato (o rinato dalla coscia del padre), Dioniso viene affidato a Ino, che se ne occupa in qualità di zia materna. A questo punto la collera di Giunone per il tradimento di Zeus si rivolge contro di lei e la sua famiglia. Giunone fa in modo che Inovenga a sapere che Adamante, il marito, aveva una concubina. Resa folle dalla gelosia, Inobrucia i semi con cui si sarebbe dovuto ottenere il futuro raccolto. Quest’atto sconsiderato, che può provocare una grave carestia, suscita a sua volta l’ira furiosa di Adamante che uccide uno dei figli avuti con Ino. La giovane madre scappa con l’altro figlio, Melicerta, nel tentativo di salvargli la vita. Fuggono fino al mare in cui si gettano saltando da una rupe. Le divinità marine hanno pietà di loro e, nel mito greco, le divinizzano: lei prende il nome di Leucotea, la dea bianca, in ricordo della bianca schiuma del mare, e il figlio quello di Palemone. Nel mito romano, invece, la loro storia non termina qui. Dopo un viaggio per mare e, in seguito, nel Tevere, i due approdano nel centro di quella che sarà un giorno Roma, vicino al futuro Foro Boario, dove si trovano anche l’Ara Maxima di Ercole e il Tempio di Carmentis. Al loro arrivo, madre e figlio sono attaccati da un gruppo di Menadi, che vogliono impossessarsi del bambino. Inochiede aiuto ed è proprio Ercole che, udite le grida, viene in suo soccorso. Liberati dalle donne infuriate, madre e bambino vengono accompagnati da Carmentis, dea della profezia proveniente anche lei dalla Grecia. Questa provvede a rifocillarli offrendo loro quei biscotti che diventeranno in seguito un’offerta rituale e a tranquillizzarli, rivelando loro di essere al termine delle sofferenze: madre e bambino diventeranno delle divinità del Lazio e saranno conosciuti come Mater Matuta, cioè la divinità dell’aurora e dell’infanzia dei bambini, e Portunus, nome che indica il suo stretto rapporto con le acque navigabili1.

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primo_lectisternium

«I duumviri dei sacri riti, fatto allora per la prima volta nella città di Roma un lectisternium, per otto giorni cercarono di placare Apollo, Latona, e Diana, Ercole, Mercurio e Nettuno, stesi su tre letti addobbati con la massima sontuosità che quei tempi consentivano. Tale sacrificio fu celebrato anche privatamente. Aperte in città tutte le porte delle case e posta ogni cosa all’aperto, a disposizione di chiunque volesse servirsene, si ospitarono i forestieri, a quanto si racconta, senza alcuna distinzione, noti e ignoti, e si conversò in modo affabile e bonario anche con i nemici; ci si astenne dalle dispute e dai litigi; si tolsero anche, in quei giorni, le catene ai carcerati, e ci si fece poi scrupolo di incatenare nuovamente coloro ai quali gli dei erano così venuti in aiuto».

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origine_lupercalia

Questa festa era stata portata nel Lazio dai Greci arrivati con Evandro, che provenivano dall’Arcadia, una regione del Peloponneso in cui era particolarmente onorato il dio Pan. Essi avevano stabilito nel Lazio una festa che ricordava quella del loro paese di origine e che consisteva appunto in un sacrificio in onore di Pan, identificato con il dio italico Fauno. La festa era stata celebrata fino al tempo di Romolo e Remo. Una volta, mentre si svolgeva, fu annunciato che dei ladri di bestiame avevano rubato le mandrie. Romolo e Remo, che allora erano giovani pastori e stavano compiendo esercizi ginnici, non persero tempo a rivestirsi e, nudi com’erano, si dettero all’inseguimento dei briganti, ognuno con un gruppo di amici. Questo episodio costituisce il prototipo mitico della corsa attraverso le strade di Roma che i luperci compiono appunto vestiti solo di una pelle di capra, dopo essersi ripartiti in due gruppi .

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dichiarazione_guerra

La procedura fu fissata da Anco Marzio, che l’avrebbe tratta dagli antichi Equicoli prima della guerra contro i Latini. Essa si articolava in diverse fasi. Anzitutto il messo, col capo bendato da una benda di lana, raggiunge il territorio del popolo al quale si chiedono riparazioni, dicendo: «Ascolta, Giove, ascolta, o territorio», e qui nomina il popolo cui esso appartiene, «io sono l’inviato ufficiale del popolo romano; vengo ambasciatore secondo il diritto umano e divino, e si presti fede alle mie parole». Egli formula quindi le richieste, chiamando a testimone Giove, e accettando di non tornare mai più in patria se tali richieste fossero risultate contrarie al diritto umano e divino; questo egli ripete al momento di varcare il confine, alla prima persona che incontra, poi entrando in città, e infine giungendo nel Foro. Se dopo trentatré giorni non vengono soddisfatte le sue richieste, egli dichiara la guerra chiamando a testimoni Giove, Giano Quirino e tutti gli dèi del cielo, della terra e degli inferi, demandando la decisione finale al senato di Roma. Se la maggioranza dei senatori si esprimeva in tal senso il feziale, tornato al confine, alla presenza di non meno di tre adulti, scagliava un’asta con la punta di ferro o di corniolo rosso, aguzzata nel fuoco, nel territorio dei nemici e dichiarava ufficialmente la guerra1.

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Anchise appare in sogno ad Enea e profetizza la storia di Roma

Anchise appare in sogno a Enea, che a Cartagine si è legato alla regina Didone, invitandolo con insistenza a partire1; al momento della seconda sosta in Sicilia, la sua immagine suggerisce a Enea di lasciare nell’isola una parte del suo equipaggio e di condurre in Italia solo i «cuori più forti», preannunciando al figlio l’incontro che i due avranno nel regno dei morti e le guerre che attendono Enea una volta raggiunta la sua meta2. Nei Campi Elisi, a colloquio con il figlio, Anchise mostra a Enea i futuri eroi della storia romana, in quel momento ancora anime in attesa di incarnarsi, in una vertiginosa prospettiva che condensa un millennio di storia3, e insieme illustra al figlio i costumi di Roma, i tratti peculiari che ne definiscono l’identità, fino a rivendicare per i Romani il dominio del mondo4.

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Bruto partecipa alla fondazione della repubblica

Bruto è figlio di una sorella di Tarquinio il Superbo; questi gli uccide il padre e il fratello, ma Bruto riesce a sfuggire alla follia omicida del sovrano fingendosi sciocco ed entra persino in intimità con i figli del re, che lo considerano il proprio zimbello. Più tardi, Bruto vendica lo stupro commesso da Sesto Tarquinio, figlio del Superbo, sulla castissima Lucrezia guidando la rivolta che conduce all’abbattimento della monarchia, per diventare infine membro della prima coppia consolare che guida la neonata repubblica. Quando viene a sapere che una vasta trama, mirante a riportare Tarquinio sul trono di Roma, ha coinvolto anche i suoi figli Tito e Tiberio, Bruto ne dispone l’immediata messa a morte e assiste personalmente all’esecuzione dei due giovani; e mentre tutti i presenti cedono alla commozione, il solo console mantiene un’espressione imperturbabile1.

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Romolo organizza il ratto delle Sabine

Romolo capisce ben presto che la città da lui fondata non avrebbe superato la prima generazione per l’assoluta mancanza di donne. In un primo tempo invia delegazioni presso le città limitrofe a chiedere loro di «mescolare la stirpe», ma le risposte ricevute sono sprezzanti; il fondatore decide allora di ricorrere all’astuzia. Organizza a Roma un grande spettacolo, al quale sono invitati i popoli vicini; a un segnale convenuto i giovani romani si lanciano sulle donne presenti, avendo cura di rapire solo le vergini. Le ragazze sono quindi condotte alla presenza di Romolo, che le unisce in matrimonio ad altrettanti cittadini, invitandole ad amare i mariti che la sorte ha assegnato a ciascuna1.

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Fedeltà coniugale di Lucrezia

Al tempo del re Tarquinio il Superbo alcuni ufficiali romani impegnati nell’assedio di Ardea decidono di montare a cavallo e di piombare a Roma e a Collazia – il piccolo centro da cui viene uno di essi, Lucio Tarquinio Collatino – per verificare come le loro donne trascorrano il tempo in assenza dei mariti. Ma mentre le altre mogli vengono sorprese nel mezzo di sontuosi banchetti in compagnia delle proprie coetanee, la sola moglie di c, Lucrezia, siede a tarda notte al centro dell’atrio, circondata dalle ancelle e impegnata nella filatura della lana. La bellezza e la castità di Lucrezia accendono però in Sesto Tarquinio, uno dei figli del re, il desiderio di possedere la donna. Trascorso qualche tempo, Sesto si presenta nuovamente a Collazia e viene accolto dall’ignara Lucrezia, cui fa violenza durante la notte vincendo la disperata resistenza della donna. L’indomani Lucrezia convoca i familiari e spiega loro l’accaduto, quindi si trafigge con un pugnale1.

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Coinvolgimento dei figli di Bruto nella congiura contro la repubblica

Dal suo esilio il Superbo fa giungere a Roma lettere destinate a giovani nobili un tempo a lui vicini e insoddisfatti della nuova situazione politica; in esse si chiede loro di aprire nottetempo le porte della città, per consentire agli esuli di fare ritorno e riconquistare il potere perduto. Tra le famiglie coinvolte nella trama spiccano i nomi dei Vitelli e degli Aquili: ai primi appartiene infatti anche la moglie di Bruto, mentre l’altro console è zio materno sia dei Vitelli sia degli Aquili, che hanno sposato altrettante sorelle di Collatino. La trama coinvolge presto i giovani Tito e Tiberio, figli di Bruto, ma legati per parte di madre a una delle famiglie implicate nella congiura; i due ragazzi hanno del resto un rapporto di amicizia con i figli del Superbo, sopravvissuto alla caduta della monarchia. Quando il piano viene alla luce, Bruto si trova pertanto a giudicare, nella sua qualità di console, i propri stessi figli; cosa che fa con inflessibile durezza, come si addice non solo all’uomo che ha giurato odio eterno verso la monarchia, ma anche al suo ruolo di padre, chiamato a incarnare i modelli di comportamento della propria cultura e a sancirne con severità l’eventuale violazione1.

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Lo zio materno interviene nella vicenda di Virginia

La vicenda è ambientata alla metà del V secolo a.C., quando a Roma le magistrature ordinarie vengono sospese e tutti i poteri sono conferiti a una commissione di dieci uomini incaricata di redigere un codice scritto di leggi, le future XII Tavole. Appio Claudio, la figura più eminente del collegio decemvirale, si invaghisce della bella Virginia, orfana di madre, e per goderne i favori costringe un proprio cliente a rivendicare la ragazza come sua schiava, approfittando del fatto che il padre della ragazza, Virginio, è impegnato con l’esercito in una campagna di guerra. Lo zio materno di Virginia, Numitorio, entra in gioco in tre momenti diversi del racconto: prima quando la ragazza cerca rifugio presso di lui per sottrarsi ai maneggi di Appio; poi quando avverte Virginio del pericolo che incombe sulla figlia; infine, dopo che Virginia è stata trafitta a morte dal padre come unico mezzo per serbarne inviolata la pudicizia, quando insieme con il promesso sposo della ragazza, Icilio, promuove una rivolta popolare mostrando alla folla il cadavere della vergine e sottolineando la particolare odiosità del crimine di cui Appio si era macchiato1.

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Rea Silvia e lo zio Amulio

Dopo essersi impadronito del regno, Amulio impone alla figlia del fratello il sacerdozio di Vesta, che comportava l’obbligo della verginità, e uccide durante una battuta di caccia il figlio di Numitore. Il ruolo di patruus ricoperto da Amulio diventa rilevante allorché la Vestale subisce violenza dal dio Marte e rimane incinta dei futuri fondatori di Roma: mentre infatti Numitore cerca in ogni modo di prendere tempo, suggerendo di attendere il parto per verificare che nascano effettivamente due gemelli, come il dio aveva profetizzato, Amulio è mosso invece da un’ira incontenibile e impone che Ilia venga battuta a morte con le verghe, poiché ha macchiato il suo corpo di sacerdotessa1. Non mancano tuttavia versioni della storia nelle quali proprio ad Amulio era addebitata la violenza contro la donna, che il re avrebbe aggredito assumendo l’aspetto del dio Marte; i due gemelli sarebbero dunque frutto di una relazione incestuosa. Questa variante rientra nella caratterizzazione di Amulio come tiranno, dato che l’ethos del despota trova proprio nell’infrazione delle norme relative alla sessualità il suo campo privilegiato di espressione; d’altro canto, essa rappresenta il totale rovesciamento del ruolo di custode dell’integrità sessuale dei figli del fratello tradizionalmente attribuito allo zio paterno .

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Zio paterno di Appio Claudio

Di fronte ai disordini generati dalla politica accentratrice di Appio Claudio e degli altri decemviri, i tradizionali nemici di Roma sono tornati all’attacco, accampandosi a poca distanza dalla città. Nella tumultuosa seduta del Senato chiamata a discutere la situazione, Appio accorda in primo luogo la parola allo zio paterno Gaio Claudio; sennonché, lungi dal difendere il triumviro, Gaio imbastisce una lunga requisitoria contro il regime di arbitrio e violenza che si è instaurato a Roma e del quale proprio il figlio del fratello è il maggiore responsabile. L’oratore fa appello più volte al suo ruolo di patruus: non solo spiegando che in ragione della sua stretta parentela con il decemviro l’eventuale disonore di quest’ultimo ricadrebbe inevitabilmente anche su di lui, ma rendendo noto che egli ha più volte, in forma privata, cercato di indurre Appio a recedere dalla sua ricerca di un potere tirannico, senza essere mai riuscito neppure a farsi ricevere in casa da lui1. Tra l’altro, dalle parole di Gaio si evince che il padre del decemviro era morto: una circostanza che faceva del patruus non un semplice doppio, ma un vero e proprio sostituto della figura paterna, dalla quale ereditava il diritto-dovere di intervenire nel momento in cui il nipote trasgrediva tanto le tradizioni della famiglia quanto le regole della vita associata. Inutile dire che Appio, in conformità con la sua indole, non terrà in alcun conto gli ammonimenti del patruus; al quale non resterà dunque che recarsi in volontario esilio a Regillo, la città sabina dalla quale i Claudi erano venuti alcune generazioni prima.

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Servio Tullio nasce dal focolare

All’epoca di Tarquinio Prisco, nella reggia di Roma vive Ocresia, una schiava originaria di Corniculum e qui catturata dopo la conquista della città. In occasione di alcuni riti sacri, a Ocresia viene ordinato di versare del vino sul focolare acceso; la schiava si accorge allora che fra le ceneri è comparso un fallo. La regina Tanaquilla comprende immediatamente che quel fenomeno ha origine soprannaturale e ordina all’ancella di sedere presso il focolare; Ocresia concepisce così il futuro Servio Tullio, il cui padre è dunque lo stesso dio del fuoco Vulcano. Di questa circostanza si ha conferma di lì a non molto, quando il capo di Servio ancora bambino viene circondato da una corona di fiamma1. In altre varianti del racconto, il fallo comparso tra le braci rimanda non a Vulcano, ma al Lare, divinità tutelare della famiglia che nell’area del focolare riceveva il proprio culto. Per questo fu Servio a istituire i Compitalia, le feste celebrate nei primi giorni dell’anno in onore dei Lari dei crocicchi (compita) e officiate dagli abitanti del medesimo vicinato2. Durante i Compitalia vigeva tra l’altro una carnevalesca inversione dei ruoli fra schiavi e padroni; proprio ai Lari, sia quelli domestici che quelli dei crocicchi, usavano del resto sacrificare gli schiavi, per altri versi esclusi dalle pratiche religiose della casa e della città.

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Anche Romolo e Remo nascono dal focolare

Durante il regno del crudele Tarchezio, nel focolare della reggia di Alba Longa si manifesta un fallo; viene allora consultato l’oracolo di Teti (Tethys) e la dea risponde che a quella apparizione doveva congiungersi una vergine, perché il bambino così concepito sarebbe divenuto famoso per valore, fortuna e forza. Tarchezio ordina alla figlia di unirsi al fallo, ma questa invia al suo posto una schiava; quando quest’ultima genera due gemelli, Tarchezio li consegna a un certo Terazio con l’ordine di ucciderli. A questo punto il mito si incanala nella direzione consueta: i bambini riescono a salvarsi, allontanano dal trono di Alba il crudele Tarchezio e diventano infine i fondatori di Roma (Plutarco, Rom. 2, 4-6).

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I fratres Arvales e il culto cerealicolo

Gli undici figli di Acca Larenzia, nutrice di Romolo e Remo (e moglie di Faustolo), furono designati dal re fondatore come i primi fratres Arvales, sacerdoti che si occupavano del culto cerealicolo della dea Dia, e a cui a Romolo stesso si aggiunse come dodicesimo membro. Poco dopo Romolo, Numa avrebbe introdotto riti in cui i cereali, e in particolare il farro, venivano offerti agli dèi, così come la mola salsa – impasto di farro primiziale, sale e acqua del Tevere lavorato dalle Vestali –, indispensabile per immolare le vittime destinate al sacrificio. Ai tempi di Numa – continua Plinio – sono poi associate importantissime feste agricole come i Fornacalia, in cui gli abitanti delle diverse curie di Roma torrefacevano il farro, o i Terminalia del 23 febbraio, in cui si rendeva culto a Terminus, dio dei confini dei campi.

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L’aratro e la fondazione di Roma

Romolo, dopo aver sperimentato nella giovinezza uno stile di vita da reietto, vivendo in un’umile capanna, allevato – lui, trovatello – da pastore tra pastori, una volta rivelatosi come figlio di Rea Silvia, imparentato con i re albani e destinato a ruoli ben superiori a quello di porcaro, avrebbe infatti fondato Roma con un aratro e assegnato lotti di terra coltivabile ai nuovi cittadini1.

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Saturno e l’invenzione dell’agricoltura

Macrobio, ad esempio, nei Saturnalia1narra come Saturno, fuggito dalla Grecia dopo la sua detronizzazione, sarebbe giunto su una nave presso Giano, dio e re del Lazio primordiale, il quale lo accolse. Nella nuova patria, Saturno avrebbe insegnato a Giano l’arte della coltivazione dei campi, atto che avrebbe consentito ai popoli indigeni il passaggio da un sistema alimentare “primitivo” basato sulla raccolta dei frutti spontanei, a un sistema in cui l’uomo coltiva le piante di cui si nutre. Per questa ragione – continua Macrobio – a Roma Saturno è considerato innanzitutto come un dio agricolo, a cui si fanno risalire tutte le pratiche di trapianto, innesto e fecondazione delle piante (insertiones surculorum pomorumque educationes et omnium huiuscemodi fertilium tribuunt disciplinas). Per contraccambiare lo straordinario dono della agri cultura, Giano avrebbe poi associato Saturno al suo regno .

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Vulca e la quadriga di Giove

A Vulca, sommo coroplasta di Veio, a cui Tarquinio il Superbo aveva commissionato una statua di Ercole e, soprattutto, la quadriga fittile che avrebbe decorato il fastigio del grandioso tempio di Giove sul Campidoglio. Vulca e i suoi aiutanti – raccontano i testi antichi – sarebbero riusciti a terminare l’opera solo dopo la cacciata dell’ultimo re, quando Roma era ormai governata da un’aristocrazia composta da acerrimi nemici dei Tarquini – mentre Veio continuava a mantenere buoni rapporti con il Superbo. È in questo contesto che si colloca un evento prodigioso collegato proprio alla produzione di Vulca. Plutarco1racconta infatti che, all’atto di cuocere la quadriga fittile destinata al tempio di Giove a Roma, gli artigiani etruschi osservarono che la statua, invece di restringersi a causa della normale evaporazione dell’acqua presente nell’impasto di argilla, si dilatò e crebbe così tanto da spaccare la fornace in cui si trovava. Gli indovini etruschi videro in tale segno portentoso un presagio di prosperità e potenza per chi avesse posseduto quella quadriga. Per questa ragione gli artigiani veienti guidati da Vulca decisero di non consegnare l’opera a Roma, con la scusa che essa apparteneva ai Tarquini, visto che era stata pagata da loro. Poco tempo dopo, però, in occasione di gare ippiche che si tenevano a Veio avvenne un secondo fatto prodigioso. I cavalli della quadriga vincitrice apparentemente impazzirono e corsero a gran velocità fino a Roma, trascinando con sé l’auriga, incapace di trattenerli, fino a che non lo sbalzarono via una volta giunti al Campidoglio, ai piedi del tempio di Giove che attendeva la sua quadriga in terracotta. Solo a seguito di tale portento gli artigiani veienti, stupefatti e spaventati dall’accaduto, consegnarono la quadriga fittile ai Romani.

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La prua di nave e la prosperità di Roma

Plutarco dapprima riporta l’opinione dei più sul significato della prua di nave sulle monete, che rimanderebbe al mito di Saturno, giunto nel Latium per l’appunto in nave al fine di nascondersi (latere, in latino) dopo la sua cacciata dal Tartaro. Plutarco liquida velocemente tale opinione proponendo invece una spiegazione politico-economica delle due immagini presenti sulla moneta in questione. Se l’effigie di Giano rimanderebbe al fatto che a tale dio/re sarebbe da ascrivere un miglioramento delle condizioni sociali e politiche delle comunità del Lazio primitivo, quella della nave starebbe a indicare che, grazie alla navigazione sul Tevere, sarebbero giunti a Roma beni e derrate di ogni genere, portando ricchezze, scambi con altri popoli e prosperità.

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Giano, la memoria e la moneta

Ovidio, nel primo libro dei Fasti1, sta descrivendo un dialogo tra lui e Giano, dio del primo mese dell’anno, apparsogli in visione. Tra le domande che il poeta pone al dio, una riguarda proprio il significato delle antiche monete da un asse dove anche Giano è ritratto. La risposta che Giano dà a Ovidio in merito alla presenza della sua effigie rimanda – piuttosto sorprendentemente per noi – alla capacità che ha la moneta, tramite i segni che riporta, di richiamare alla memoria dell’utente la cosa che su di essa è rappresentata. Giano sottolinea infatti che la presenza della sua immagine su monete, per il fatto solo di essere su oggetti che passavano per le mani di tutti i Romani, faceva sì che il suo nome avrebbe continuato a essere riconosciuto e ricordato in quella società. Il dio bifronte, poi, si sofferma a lungo sull’immagine della prua di nave che – come ritenevano «i più» menzionati da Plutarco – rimanderebbe proprio all’arrivo di Saturno sulla sua nave, e al suo approdo sul Tevere dopo essere stato scacciato da Giove. I saggi discendenti (bona posteritas) dei più antichi abitanti del sito di Roma avrebbero apposto sulle monete da un asse la prua di nave anche in questo caso per testimoniare (testificata), ricordare, l’arrivo del divino ospite di Giano.

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Romolo e il valore della moderazione

Il primo re di Roma, invitato a banchetto da amici, avrebbe bevuto piuttosto poco (non multum). All’osservazione dei commensali, secondo cui «se tutti gli uomini facessero così, il vino avrebbe assai poco valore», Romolo rispose che essi si sbagliavano. Al contrario, secondo il re, se tutti facessero come lui, il vino sarebbe certamente caro, dal momento che Romolo aveva bevuto esattamente la quantità di vino che desiderava – cioè, per l’appunto, una quantità moderata.

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Tarquinio e l’enigma dei libri sibillini

Durante il regno dell’ultimo re di Roma si presentò da lui una donna straniera – in alcune versioni descritta anche come anziana1– che voleva vendergli nove (o tre) libri di oracoli a un prezzo molto alto, in oro secondo Dionigi di Alicarnasso2. Tarquinio rifiutò sbrigativamente l’offerta a causa del prezzo e la venditrice se ne andò. Dopo poco tempo, la donna si presentò ancora al re, ma stavolta con un terzo di libri in meno (sei, o due, a seconda che la prima offerta fosse stata di nove o tre libri), chiedendo lo stesso prezzo proposto inizialmente per il lotto completo di libri. Tarquinio a questo punto iniziò a irridere la venditrice3e a considerarla delirante e proprio per il fatto di pretendere lo stesso denaro per un numero inferiore di libri. La donna a questo punto se ne andò nuovamente salvo ripresentarsi, dopo un po’di tempo, per la terza volta a Tarquinio, non prima però di aver bruciato la metà dei libri rimasti (tre nelle versioni in cui i libri rimasti erano sei, uno in quelle versioni in cui i libri superstiti erano due) e chiedendo sempre la stessa cifra per una quantità di libri ormai decisamente ridotta rispetto all’inizio (tre su nove, oppure uno su tre). Solo a questo punto – ci dice Dionigi di Alicarnasso4– il re, insospettito per la strana vicenda, avrebbe fatto chiamare gli àuguri, interrogandoli sul da farsi. Gli àuguri compresero da subito che quei libri erano una benedizione mandata dagli dèi e che dunque Tarquinio aveva sciaguratamente respinto un bene preziosissimo. Per questa ragione essi esortarono il re a pagare immediatamente la cifra che veniva richiesta in modo da ottenere almeno una parte di quegli importantissimi oracoli, per i quali l’ultimo re avrebbe scelto due custodi: i duoviri (il cui numero crebbe fino a sedici in età cesariana) sacris faciundis che si occupavano della loro consultazione.

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Tazio, l’omicidio e la peste

Al tempo in cui Tito Tazio e Romolo condividevano il potere, alcuni amici e parenti di Tazio, imbattutisi negli ambasciatori dei Laurenti, li attaccarono per derubarli e li uccisero. Romolo, venuto a conoscenza dell’accaduto, voleva che quell’ingiustizia fosse subito punita, ma Tazio esitava. Allora i parenti di quelli che erano stati uccisi, disperando di ottenere giustizia, dato che gli assassini erano amici del re Tazio, assalirono quest’ultimo mentre, con Romolo, stava celebrando un sacrificio a Lavinio. Romolo seppellì Tazio, ma trascurò di punire quell’omicidio. Qualche tempo dopo, una pestilenza si abbatté sulla città, accompagnata da una pioggia di sangue. Era chiaro a tutti che quella era la punizione divina per l’uccisione degli ambasciatori laurenti, che violava le norme di giustizia. Infatti, non appena gli assassini furono puniti, i flagelli cessarono. Romolo allora purificò Roma con dei sacrifici espiatori, ed essi si continuarono a celebrare anche dopo, nei pressi della porta Ferentina1.

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Esculapio giunge a Roma

Una peste funesta aveva contaminato l’aria del Lazio e i pallidi corpi giacevano abbandonati allo squallore e alla putredine. Di fronte al fallimento dei tentativi mortali e delle arti mediche, si cercò l’aiuto degli dèi. Così un’ambasceria di Romani si recò a Delfi e il dio disse loro che, per ridurre i lutti, occorreva ricorrere a suo figlio, Esculapio, che si trovava a Epidauro. Così, i Romani lo condussero a Roma, dove pose fine ai lutti1.

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Amuleti di Gaia Cecilia

Tanaquilla, moglie di Tarquinio Prisco, è una nobildonna etrusca esperta di arte divinatoria e interpretazione dei presagi1. A Roma assume il nome di Gaia Cecilia. È lei a inventare i praebia, amuleti che respingono i mali e che Varrone2descrive come oggetti che i bambini portano al collo perché li tengano al sicuro. Gaia Cecilia li teneva incastonati nella sua cintura, che fu poi allacciata a una statua con la sua effigie custodita nel tempio di Semo Sanco. Così, quelli che sono in pericolo raschiano gli amuleti della cintura e portano via con loro la limatura ottenuta3.

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La morte di Remo secondo Diodoro Siculo

Romolo nel fondare Roma cinge con cura il Palatino con un fossato per impedire che i popoli vicini possano ostacolare il suo progetto. Ma Remo, che non sopportava di essere stato vinto dal fratello e invidiava la sua buona sorte, recatosi presso quelli che lavoravano alle fortificazioni li dileggiava, sostenendo che quel fossato sarebbe stato insufficiente a difendere la città e che i nemici avrebbero potuto oltrepassarlo facilmente. Allora Romolo, adirato, disse: «Ordino a tutti i cittadini di respingere colui che tenti di attraversare questo confine». Ma di nuovo Remo, insultando quelli che lavoravano, diceva che lo stavano facendo troppo stretto: «Un nemico potrebbe facilmente superarlo, così come faccio io». E dicendo così lo attraversò. Ma un certo Celere, uno dei lavoratori, impugnò una vanga e uccise Remo, affermando di obbedire al proclama del re1.

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Le corna di Genucio Cipo

Dopo una fortunata campagna militare, il pretore Genucio Cipo aspetta con il suo esercito fuori dalle mura della città, forse che il Senato gli conceda l’onore del trionfo. Specchiandosi nell’acqua di un fiume, si accorge però che inspiegabilmente gli sono cresciute delle corna sulla testa. L’aruspice consultato in proposito gli rivela che quelle corna simboleggiano il potere regale: se Genucio fosse rientrato in città, ne sarebbe diventato re e avrebbe regnato per il resto dei suoi giorni senza alcun pericolo. Il pretore convoca allora il popolo e il Senato e dopo essersi cinto di una corona di alloro, in modo da coprire le corna, dice di essere venuto a sapere che è lì presente qualcuno che attenta alla libertà della repubblica, riconoscibile dalla presenza delle corna sulla testa, e che costui diventerà re della città se non ne verrà cacciato. A questo punto tra la folla sbigottita si solleva un mormorio e tutti si domandano chi sia il misterioso individuo che rischiava di riportare la monarchia a Roma. A quel punto Cipo si toglie la ghirlanda dalla fronte, mostrando il segno che lo designava quale futuro re. A questa vista tutti abbassano lo sguardo e gemono al pensiero di doversi privare di un uomo così grande. Il Senato, presa coscienza dell’impossibilità di far rientrare il pretore in città, decide di concedergli tanta terra quanta egli fosse riuscito a circoscriverne con un solco in un solo giorno, dall’alba al tramonto1. In un’altra versione, Cipo vede spuntare le corna quando sta uscendo, vestito da generale, dalla porta della città; informato del significato del prodigio, decide di autoesiliarsi e di non fare mai più ritorno a Roma2.

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La costruzione del tempio di Giove sul Campidoglio

Quando Tarquinio il Superbo avviò la costruzione del grande tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio, fu necessario exaugurare – termine che si può rendere approssimativamente con “sconsacrare” – tutti i tempietti e gli altari che affollavano la cima di quel monte. La procedura prevedeva che fosse chiesto a ciascuna divinità se fosse disposta a cambiare sede per lasciare spazio a Giove. La tradizione riferisce che tutti accettarono di buon grado e che solo Terminus, il dio dei confini, non diede il proprio assenso. Tale diniego fu inteso come un auspicio di eternità: se il dio dei confini non aveva voluto spostarsi dalla propria sede, ciò significava che i confini di Roma, sui quali egli vegliava, sarebbero rimasti saldi e fermi in eterno. Mentre poi si scavava per porre le fondamenta del tempio, fu trovata una testa umana dal volto ancora intatto. Questo ritrovamento, secondo gli interpreti, indicava che il Campidoglio sarebbe stato la rocca dell’impero e il capo del mondo1.

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L’apoteosi di Romolo

Il giorno in cui Romolo scomparve misteriosamente in Campo Marzio nel corso di una tempesta, tra la plebe serpeggiò il sospetto che egli fosse stato ucciso dai senatori, mentre gli stessi senatori sostenevano che il re era stato portato in cielo dal turbine. Allora un certo Giulio Proculo si presentò all’assemblea e assicurò di aver visto con suoi occhi Romolo scendere dal cielo e dirgli queste parole: «Va’e annuncia ai Romani che gli dèi vogliono che la mia Roma sia la testa del mondo. Che coltivino l’arte militare e sappiano che nessuna potenza umana potrà mai resistere alle armi romane»1.

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La visita di Enea ai luoghi futuri di Roma

Alla vigilia della guerra contro i Rutuli, Enea, da poco giunto nel Lazio, si reca dal re Evandro per stringere un’alleanza militare. Costui vive con la sua comunità di Arcadi sul Palatino, proprio là dove, qualche secolo dopo, Romolo fonderà la sua città. Il re si mostra subito molto ospitale con Enea e lo conduce a visitare alcuni dei luoghi in cui si svolgerà un giorno la storia di Roma: il bosco che Romolo trasformerà in asilo, la grotta del Lupercale, la rupe che sarà chiamata Tarpea e la cima del Campidoglio, da cui, dice Evandro, promana un sacro terrore che atterrisce gli abitanti, convinti che un dio vi abiti, anche se non sanno dire chi sia. Infine, Evandro mostra al suo ospite le mura diroccate di due insediamenti più antichi del suo, l’uno fondato da Giano e chiamato Gianicolo, l’altro da Saturno e chiamato Saturnia1.

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Il giudizio del padre e il rigore della memoria familiare

Decimo Silano apparteneva a una famiglia nota a Roma per la sua severità, quella dei Manli Torquati. Quando venne accusato di concussione dei provinciali della Macedonia, sui quali aveva esercitato il proprio mandato di governatore, suo padre Tito, console nel 165, lo sottopose a un vero e proprio processo privato, al termine del quale lo ritenne colpevole e gli intimò di scomparire per sempre dalla sua vista. La notte successiva Silano si impiccò, ma neppure il lutto riuscì a piegare il rigore paterno. Torquato non partecipò ai funerali del figlio e rimase in casa come se nulla fosse, mettendosi a disposizione di chi volesse interpellarlo: sedendo nell’atrio, fissava l’immagine del suo omonimo antenato, che da console, due secoli prima, aveva messo a morte il figlio colpevole di aver disobbedito al suo comando. Da uomo saggio qual era, sapeva infatti che le maschere degli avi sono collocate nella parte anteriore della casa perché i posteri leggano le iscrizioni che rievocano le loro virtù e ne imitino le azioni1.

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Orazio Coclite e Clelia: il coraggio sul Tevere

Quando gli Etruschi di Porsenna marciarono su Roma, l’unico punto d’accesso alla città era costituito dal ponte Sublicio, sospeso sul Tevere. Orazio Coclite convinse allora i compagni, ormai in fuga verso l’altra riva, a distruggere il ponte. Il passaggio crollò, Orazio si gettò nel fiume, levò una preghiera al dio Tiberino e raggiunse incolume l’altra sponda. In seguito, l’impresa sarebbe stata replicata da Clelia, finita tra gli ostaggi di Porsenna. La ragazza, capeggiando un gruppo di vergini, si lanciò nell’acqua e superò indenne i mulinelli del Tevere, destando l’ammirazione del nemico e ottenendo l’onore di una statua1.

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Le prove di castità di Claudia Quinta e Tuccia

Al tempo dell’ingresso a Roma della dea straniera Cibele, la nave sulla quale viaggiava la statua si era arenata alle foci del Tevere. La matrona Claudia Quinta, per allontanare da sé l’accusa di adulterio, implorò la dea affinché testimoniasse la sua innocenza e riuscì miracolosamente a tirare la nave dietro di sé1. Parimenti, la vestale Tuccia si difese dall’accusa di incesto trasportando con un recipiente forato l’acqua del Tevere fino al tempio di Vesta2.

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L’eredità di Enea e la missione di Roma

Enea, accompagnato dalla Sibilla, è sceso agli Inferi, dove ha incontrato il padre Anchise, che lo conduce su un’altura per mostrargli la sua discendenza. Da qui egli osserva un lungo corteo di anime in attesa di venire al mondo, che sfila ordinatamente di fronte ai suoi occhi. Ad aprire la colonna è Silvio, figlio di Enea e Lavinia, cui seguono gli altri re albani, Romolo, il fondatore di Roma, e i suoi successori Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marcio, i Tarquini; poi i grandi eroi della storia repubblicana, Bruto che cacciò il tiranno e fu il primo console, i Deci, i Drusi, Torquato che fece giustiziare il figlio, Camillo che riprese Roma ai Galli; e molti altri ancora, Catone, i Gracchi, i due Scipioni, Cesare e Pompeo, lo stesso Augusto, sotto il cui regno tornerà l’età dell’oro, e infine il giovane Marcello, nipote di Augusto, scomparso a soli 19 anni1.

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La discesa dell’ancile e la nascita dei Sali

Nell’ottavo anno del regno di Numa, mentre Roma è sconvolta da una terribile pestilenza, cade dal cielo uno scudo di bronzo che i Romani, per via della sua forma, chiamano ancile. Lo stesso Numa racconta di aver appreso da Egeria e dalle Muse che quel dono celeste avrebbe garantito la salvezza della città. Per evitare che esso fosse rubato o cadesse in mano dei nemici, il re decide di farne costruire dai suoi artigiani undici copie perfette, in modo da nascondere l’originale. Nessuno tuttavia riesce nell’impresa – si trattava del resto di riprodurre un acheropite, ossia un oggetto non fabbricato da mano umana – tranne Mamurio Veturio, il quale chiese come ricompensa per la sua arte che il proprio nome comparisse nel canto dei Sali, i sacerdoti che Numa aveva istituito per custodire i dodici ancili1.

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La pestilenza del 363 a.C. e il rito del chiodo

Nel 363 a.C. scoppiò a Roma una terribile pestilenza, che provocò la morte di molti cittadini. Si tentò di combatterla in più modi, prima attraverso la celebrazione di un lectisternium , poi, dal momento che la sua potenza non accennava a diminuire, con l’istituzione di rappresentazioni teatrali, una vera novità per i Romani, abituati fino a quel momento al solo spettacolo del circo. Tuttavia, neppure questo riuscì a placare la collera degli dèi. I più anziani si ricordarono allora di come una volta una pestilenza fosse stata arrestata quando il dittatore aveva conficcato un chiodo. Il Senato decretò allora che si eleggesse un dittatore per la clavifissione: fu scelto Lucio Manlio Imperioso, che a sua volta elesse come maestro della cavalleria Lucio Pinario1.

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I giorni nefasti e la battaglia dell’Allia

Dopo che Roma fu liberata dai Galli Senoni e ripopolata, Lucio Attilio fece presente al Senato che il tribuno militare Quinto Sulpicio Longo aveva celebrato il sacrificio propiziatorio in vista della battaglia contro i Galli, quella che si sarebbe poi svolta presso l’Allia, il giorno dopo le idi di luglio, vale a dire il 16; come tutti sapevano, l’esercito romano era stato distrutto e la città conquistata. A quel punto, molti senatori dissero di ricordarsi che, ogniqualvolta un magistrato del popolo romano aveva fatto un sacrificio propiziatorio in vista di una guerra il giorno dopo le calende, le none e le idi, nella battaglia immediatamente successiva le cose erano andate male per la repubblica. Allora il Senato riferì la cosa i pontefici e i pontefici decretarono che in quei giorni non sarebbe stato possibile celebrare alcun sacrificio1.

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Lara, Giuturna e la punizione del silenzio

Ai primordi della storia di Roma, Giove viene preso da un amore smodato per la bella ninfa Giuturna, la quale però gli sfugge continuamente. Giove convoca quindi tutte le ninfe del Lazio e parla loro: faceva male Giuturna a negarsi al padre degli dei; agissero dunque nell’interesse della sorella e la bloccassero, impedendole di immergersi nelle acque del fiume. Le ninfe acconsentono alla richiesta di Giove. Tutte tranne una, Lara, una chiacchierona. Molte volte suo padre, il fiume Almo, le aveva detto di tenere a freno la lingua, ma lei non gli dava ascolto. Anche in quella circostanza Lara non riesce a trattenersi: corre subito al lago di Giuturna, le dice di fuggire e le riferisce le parole di Giove; poi, non contenta, fa visita anche a Giunone e le rivela che il marito ama la ninfa Giuturna. Si adira moltissimo il padre degli dei e per punirla le strappa la lingua. Non pago della terribile punizione, ordina quindi a Mercurio di condurla nella palude infera, tra i silenziosi1.

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Lara e i Lari: nascita e metamorfosi di Tacita

Il messaggero degli dei si innamorò della bella ninfa durante il tragitto verso la palude infera e le usò violenza, mentre lei lo pregava disperatamente di non farlo con l’espressione del volto e tentava inutilmente di emettere parole con le labbra ormai mute. Lara rimase incinta e partorì due gemelli, i Lari, che proteggono i crocicchi di Roma e vigilano in eterno sulla città. Negli inferi, oltre che madre dei Lari, ella diviene anche la dea custode del silenzio, con il nome di Tacita o Muta1.

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Numa, la carestia e il sogno ambiguo di Fauno

All’epoca di Numa, il secondo re di Roma, la città venne minacciata da una grave carestia. L’infertilità si era diffusa rapidamente ed era arrivata a colpire anche gli animali. Numa decise allora di consultare Fauno, il quale dava responsi nel sonno, di notte, nel cuore di un’antica selva. Qui si recò il saggio re, e seguì il rito: sacrificò due pecore, una a Fauno, l’altra al Sonno, e si distese quindi sulle pelli, pregando il dio con parole appropriate. La notte sopraggiunse, portando con sé sogni oscuri. Fauno apparve alla destra del giaciglio del re e pronunciò parole: la Terra era adirata e doveva essere placata con il sacrificio di due vacche; una sola, però, doveva offrire due vite. Numa si destò in preda al terrore e prese a passeggiare per il bosco sacro, pensando e ripensando a quell’ambiguo e oscuro responso – il cui significato sarà poi chiarito dalla ninfa Egeria sua sposa amatissima (gli venivano richieste le viscere di una vacca gravida, la quale, morendo, avrebbe offerto al sacrificio due vite). Il buon re obbedì agli ordini divini e pose così fine alla carestia1.

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Bruto interpreta l’oracolo del bacio alla madre

Tarquinio, angosciato da prodigi funesti, decide di consultare l’oracolo di Apollo a Delfi, inviandogli i propri figli Tito e Arrunte, cui si affianca anche Bruto, più come zimbello che come compagno. Questi porta in dono ad Apollo un bastone di legno, suscitando lo scherno dei cugini, ignari della sua astuzia: nel cavo del bastone infatti Bruto ha nascosto una verga d’oro. Al quesito dei giovani, il dio risponde che a Roma il potere supremo sarà detenuto da quello che per primo avrà baciato la madre. Mentre Tito e Arrunte si avviano alla volta di Roma, per contendersi al più presto il bacio della madre, Bruto finge di inciampare e cadendo goffamente bacia la terra, madre di tutti gli uomini, adempiendo così l’oracolo senza che i cugini se ne accorgano1.

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